Il tufo e il vento a Oria nel cuore di Gennaro

Hai mai pensato a come il tufo, una roccia particolare e porosa, possa raccontare una storia millenaria, o a come il vento possa essere oltre che un soffio naturale, anche uno strumento di progresso e innovazione? In questo articolo, ti porto in un breve viaggio, a conoscere un personaggio che ha saputo leggere la natura e trasformarla in qualcosa di straordinario. Ti ho trasmesso curiosità? Partiamo allora per il nostro percorso nel tempo tra tufo e vento, attraverso il racconto che ho presentato alla Notte del Museo a Palazzo Martini ad Oria, il 26 maggio 2023. Eccolo qui di seguito.

Oria non l’ho mai sentita, dice il turista che la scopre. La città non è famosa nel mondo. Ma già da quando si avvicina resta ammaliato dal paesaggio urbano che vede da lontano, quello che oggi chiamiamo lo skyline con la cupola della Basilica Cattedrale, le torri del castello, il digradare di case e alberi, il saliscendi dei suoi colli. E affianco a tutto questo la Torre dell’Acqua che svetta lì dagli anni ‘80 del Novecento. Un panorama è fatto dalle scelte nel tempo degli uomini che hanno vissuto in un luogo. E alcune di esse sono innovative e coraggiose, come quelle che si possono ammirare nel vicino santuario di San Cosimo alla Macchia, dove pure si vede stagliarsi nel cielo qualcosa di straordinario.

Non parlo delle pale eoliche, che stanno diventando piuttosto comuni anche dalle nostre parti. E non mi riferisco nemmeno alla chiesa con la facciata neoclassica del diciannovesimo secolo. Parlo della pompa a vento alta trenta metri che svetta nella villa Martini-Carissimo che confina con il santuario: un’opera così ingegnosa e avveniristica che fece guadagnare a chi la volle realizzare il titolo di Cavalierato del lavoro nel 1909. E vicino ad essa vedi delle vasche per l’acqua e anche la meravigliosa villa risalente agli inizi del XX secolo. 

Colui che la immaginò e la finanziò veniva da Foiano di Val Fortore, un comune in Campania nella valle del Fortore, come dice appunto il toponimo. È lì che nacque nella notte di Natale del 1846. L’uomo del quale vi racconto è Gennaro Carissimo, che nelle sale del museo di Oria è ricordato come Patrizio di Benevento e del quale si conservano due tele in cui è ritratto, una in veste di giudice, quale fu, e l’altra in abiti civili ma sempre con due grandi mustacchi, scuri come i capelli e gli occhi, la fronte alta, il corpo un po’ pingue. Con gli anni capelli, sempre folti, e baffi si incanutiscono ma fanno sempre bella mostra di sé. Accanto ad una di queste tele ci sono due donne: Elena e Maria Annina Martini, sorelle. Gennaro le sposò tutt’e due. Non perché fosse bigamo ma perché nel 1884 la prima moglie, Elena, morì e così in seconde nozze si unì a Maria Annina. Il connubio di queste due grandi famiglie, i Martini e i Carissimo, era destinato a restare saldo. 

La prima risale al nobile spagnolo José Martinez che si stabilì a Brindisi nell’anno 1020 e poi a Oria. S’imparentarono nel tempo con altre famiglie patrizie fino a quando Tommaso Martini, membro di spicco della famiglia, generò Elena e Maria Annina. La seconda risale al bolognese Gesualdo Storletti, come racconta Mauro Suttora in Storia di un castello svevo. Era un cavaliere che partì in  Crociata per la Terra Santa. Si fregiò il petto di una croce d’oro in campo rosso per testimoniare la sua fede religiosa e sotto vi aggiunse la parola «Carissima». Gesualdo tornò a Bologna vittorioso nel 1222, e in seguito suo figlio Giovanni, in segno di devozione, abbandonò il cognome Storletti per quello di Carissima.

Ora potrei parlare del Gennaro sindaco per due volte di Oria, del suo esser diventato vicepresidente della Terra d’Otranto, la ripartizione amministrativa prima dell’invenzione delle province, l’amministrazione dell’ospedale Martini, la nomina a senatore nel 1913. Ma lascio queste pur lodevoli notizie agli storici e ai ricercatori. Perché quel che voglio, invece, raccontare è l’amore di Gennaro per la terra e il vento. Fu lui infatti a dedicarsi nei terreni di famiglia all’introduzione di nuove colture per l’epoca come il mandorlo e il pistacchio. Ora il pistacchio ce lo ritroviamo un po’ dappertutto: nei biscotti, nei cornetti, nei cheesecake, nella pasta, nel dentifricio, nella crema per il viso, nei profumi, nei preservativi… 

Non c’è festa di paese in cui non ci mettiamo, poi, ad aprirne tanti, perché salati e appetitosi, insieme a noccioline, anacardi, semi di zucca. Per la sua coltivazione vanno bene anche i terreni magri e sassosi come quelli appunto di San Cosimo alla Macchia che sono molto calcarei. Più che di terra dobbiamo parlare di tufo. Si tratta infatti di rocce granulari, porose, friabili che sono il risultato di un’antica linea di costa. Il mare, poi, si è ritirato e ci ha lasciato dei terreni pieni di fossili e di pietrisco. Nel tempo quella coltura poi non si è sviluppata ma questa scelta che fece Gennaro fu geniale. È anche vero che i suoi discendenti hanno poi mostrato nel tempo una certa vena innovativa in agricoltura. 

Tufo e vento dunque. Questi i due elementi nella testa oltre la fronte alta di Gennaro. Qui il vento spesso sale dal mare, distante pochi chilometri, e a volta s’infuria. Nel 1897, quando Gennaro aveva cinquant’anni, ci fu quel che gli anziani del paese ricordano come “Lu Cicaloni” che non è una cicala maschio gigante, ma il ciclone, anche se il termine è improprio. Tuttavia ci fu una burrasca tale da ricordare gli uragani delle Americhe. Si trattò di una tromba d’aria che si stima fece circa 40 vittime e tra i 400 e i 700 feriti. Si ruppero i fili del telegrafo e quindi il paese restò isolato per giorni. Tante case furono abbattute e chiese ed edifici pubblici restarono danneggiati. I campi furono devastati e molte bestie morirono. Fece inoltre crollare un angolo della Torre dello Sperone, merli, mensole e piombatoi del castello. Gennaro si adoperò anche in quest’occasione e fece arrivare da Marsala dodici “figlie”, come venivano dette, di san Vincenzo per l’assistenza ai feriti, come riporta Vincenzo Sparviero in Il ciclone di Oria.

Forse è guardando a quel che il vento aveva provocato ad Oria e dintorni, ai danni nei campi e ai crolli di parti del castello, che Gennaro pensò alla forza del vento. Prima dell’Ottocento le pompe eoliche erano usate soprattutto nei Paesi Bassi per il drenaggio del terreno. Poi in quel secolo negli Stati Uniti iniziò il loro impiego per prelevare acqua da un pozzo. In Italia furono costruite le prime pale di questo tipo in Toscana a partire dal 1872. 

Quelle pale in alto costituivano il suo giocattolo, non erano altro che una gigantesca girandola, come quelle che vendono i giocattolai ai bambini nel mercato del santuario. Una sorta di mulinelli simili a quelli che si pongono in cima alle case per vedere la direzione del vento. La mutevolezza di quest’ultimo fa dunque muovere le pale e insieme a queste il senso di meraviglia e stupore. Gennaro, un bambinone, voleva scoprire meglio quel mondo che man mano gli si rivelava dopo che lasciò il suo incarico di magistrato a trentatré anni. In quella torre l’invisibile si faceva manifesto, l’acqua veniva tirata fuori dal pozzo e immagazzinata per l’irrigazione. La ruota si vedeva da lontano e man mano che ci si avvicinava si poteva sentire il suono del vento e il ronzio del meccanismo.

Il viaggio tra tufo e vento si conclude qui, nel ricordo di un uomo che ha saputo sfruttare le risorse della natura per creare progresso. I suoi ritratti e altri cimeli di famiglia sono conservati a Palazzo Martini ad Oria in apposite sale visitabili e aperte al pubblico.

Ma la storia di Gennaro non deve rimanere racchiusa tra le mura del Palazzo: condividila. Passa parola di questo articolo a chi conosci, e insieme celebriamo la figura di un uomo che ha saputo guardare al futuro con la saggezza tratta dal passato e dalla natura. E ricorda: ogni volta che visiterai Oria e alzerai lo sguardo alla Pompa a Vento, i segreti del tufo e del vento ti riveleranno un pezzo della sua storia.

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