I social sono morti. Il blog resiste

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Photo by Anthony Shkraba on Pexels.com

C’era una volta il world wide web con le sua paginette statiche, i siti web che tu mettevi online e che lì restavano, più o meno visitati, in cui il massimo dell’interazione avveniva via email o dove trovavi un numero di telefono a cui chiamare. Poi arrivarono le pagine dinamiche e i blog grazie ai quali anche chi non era un webmaster poteva pubblicare articoli, notizie, contenuti. A un certo punto, nel 2007, esplode Facebook, il primo vero grande social network che cambia lo stato delle cose: quasi ogni abitante della terra che avesse una connessione alla rete con estrema facilità poteva creare un suo profilo, fare l’upload di foto, pubblicare quel che gli passava per la testa. Per anni sono state pubblicate cose di qualità, interessanti, ben curate. Dopo è diventata una caciara.

L’algoritmo

L’algoritmo ha cominciato a mostrare ciò che riceveva più like: meme di cattivo gusto, battute da bar, cagnolini e gattini a più non posso e chi più ne ha più ne metta. Insieme a questo sfoghi e lamentele a go go. E ci sono cascato anche io, più di una volta. Fino all’aforisma del 2015 di Umberto Eco:

I social network sono un fenomeno positivo ma danno diritto di parola anche a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Ora questi imbecilli hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”. 

L’involuzione

Il semiologo e scrittore quando pronunciò questa frase per la verità disse anche altro. E di certo non voleva essere un anatema. In tanti hanno visto in Facebook la possibilità di fare una content curation che permettesse una vera crescita umana, professionale, culturale. Ma di fatto è avvenuta una involuzione e il fenomeno delle fake news ne è solo una delle tante dimostrazioni. Un amico che ne sa più di me, un professionista e un autore di libri sul brand come Riccardo Scandellari ha di recente scritto nel suo blog:

Dieci anni fa abbiamo preso un grande abbaglio: abbiamo immaginato che i social network fossero un luogo aperto e connesso nel quale ricercare un pubblico e perseguire il nostro scopo. La maggioranza di noi ha creduto a questa visione e si è prodigata pubblicando messaggi di stato, foto e video con cui intercettare un potenziale pubblico interessato. Alcuni tra noi hanno addirittura tentato di vendere – attraverso promozioni a pagamento – a un pubblico che non ci conosceva.

Successivamente, si è scoperto che gli interessi delle piattaforme non si allineavano con i nostri progetti, ma soprattutto con quelli delle masse che utilizzavano i social per distrarsi o per sfogarsi.

La corsa al ribasso

Il fatto è che a furia di cercare attenzione ciascun utente fa una corsa al ribasso, elemosinando il più possibile. È successo anche a me. Così si apre un buco, una voragine che ti risucchia e che ti fa restare al suo interno il più possibile. Basta guardarsi in giro: ovunque ci sono persone chine sullo smartphone e dimentiche di quello che stanno facendo, persino gli autisti di autobus durante il lavoro.

La soglia di attenzione

E poi la cosa più grave è che la nostra attuale capacità di attenzione è inferiore ai 7 secondi. Io credo sia arrivata a 1 o 2 secondi. Come lo so? Basta guardare a quello che stiamo facendo con le storie su Instagram e i video su TitkTok. Me ne sto occupando molto perché io stesso ne creo per me e per conto di altri come Content Creator. Anche se almeno ci provo a far pensare le persone, a nutrire la curiosità per contenuti più nobili pur nei registri dello storytelling, del divertimento e della comicità qualche volta.

Gli zombie

Ora, miliardi di persone sono perse, spacciate per sempre. Non si può fare più niente. Sono morte, come zombie. Tale è la portata del fenomeno che gli stessi Zuckerbeg e altri si stanno adeguando a ciò che la gente vuole fare con i social: spararla più grossa degli altri, sfogarsi in modo più negativo possibile, come purtroppo ho fatto anche io delle volte, oppure fingere uno stile di vita che non ha. Certo, di fronte a questo c’è Instagram che almeno spinge, per natura, a pubblicare foto, testi e video più positivi. E infine c’è TitkTok che è vituperato un po’ troppo dagli adulti ma che almeno alimenta la creatività, anche se la vera creatività, alla fine, non è tanto nell’usare gli effetti speciali, ma nella capacità di trovare qualcosa di nuovo, di mai visto, ma questo è un altro discorso che affronteremo una prossima volta.

Il blog

In tutto questo i blog, dati per defunti tante volte, in realtà resistono. Certo aprirne uno, formarsi al suo corretto utilizzo, coltivarlo ogni giorno è un vero lavoro, per giunta non remunerato direttamente. E non è per tutti. Tuttavia il blog è il sale del grande minestrone della rete. Laddove tutto è diventato alla fine uguale a se stesso, ripetitivo, stra-copiato, privo di senso chi si mette a scrivere (o a fare video più lunghi su Youtube) sta in realtà dando sapore, con un minimo di senso critico a ciò che sta succedendo altrove. Alla fine un blogger ti aiuta a pensare, a selezionare ciò che si salva dall’immondizia, ideare persino post, articoli, foto, video, meme ecc. che siano davvero fighi, belli, portatori di significato.

La tua esperienza

Ora, il palcoscenico è riservato a te, il protagonista della nostra narrazione digitale. Condividi la tua esperienza personale con i social network. Hai riscontrato sfide simili o hai una prospettiva unica da condividere? La tua voce può illuminare nuovi aspetti di questa discussione, non solo per te ma anche per gli altri lettori. Non esitare a far sentire la tua presenza. Grazie per essere parte integrante di questa vivace conversazione digitale! 📝🗣️🌐

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