In treno, da centro a sud

Qual è stata l’ultima volta che hai preso il treno? Parlo di un treno diverso dall’alta velocità, oggi sempre più diffusa. Te li ricordi gli Intercity? Una volta, circa trenta anni fa, erano il fiore all’occhiello. Ora sono una rarità, eppure esistono ancora. Ce n’è uno che da Roma Termini porta a Taranto e viceversa, il treno 701, che attraversa Lazio, Campania e Basilicata. Mi capita di prenderlo ogni tanto e oggi voglio raccontarti suggestioni e ispirazioni in alcune delle sue tappe.

L’uomo in rosa

Una delle prime fermate è Aversa. È l’ora dei ragazzi che vanno a scuola, tutti uguali con i loro zaini, le loro mode, le loro pose e i loro raggruppamenti. Ma stamattina spunta un omone con la camicia rosa e i pantaloni bianchi. Ha una bella falcata e la testa china di chi a 50 o 60 anni, sua età probabile, pensa non già alle incombenze, ma forse filosofeggia, prendendosi quasi beffa delle routine che a quest’ora iniziano per tanti.

L’esercito degli studenti

Gli studenti di Aversa sono solo un gruppo. A Napoli, dove li osservo da un binario lontano, c’è un intero esercito di studenti che marciano, in fila, uno dietro l’altro. Per loro è normale fare la fila, risponder sempre di sì e comportarsi da persona civile. Mi viene in mente In fila per tre di Bennato, con la morale, le preghiere e l’amore per la bandiera. Discendiamo dagli antichi romani si dice più avanti nel testo della canzone. Io ripenso al signore in rosa e mi chiedo se qualcuno prima o poi romperà le righe, disubbidendo.

L’uomo che conta

Bisogna imbellettarsi la mattina, domare i capelli che nell’anachia della notte prendono chissà quali forme, lavarsi, profumarsi. Magari i ragazzi della scuola lo fanno un po’ meno e con le loro scarpe da ginnastica, come si chiamavano una volta, non è che in treno e in classe emanino i migliori odori. Chi lavora poi in certi uffici, a volte di rappresentanza, deve magari indossare un completo in giacca e cravatta. Come ho visto fare a un uomo che se ne sta in un angolo della stazione, in fondo, di Salerno. Lui su questo treno non ci sale. Forse è in attesa di un Frecciarossa o di un Frecciargento. Lo guardo dai finestrini sporchi di polvere con i capelli ben tagliati, corti, il viso sbarbato. Lui conta o vuole contare. Noi a bordo del 701 un po’ meno.

Roma nel nome

Tra la Campania e la Basilicata, il treno si alterna tra accelerazioni a 200 km orari e rallentamenti forzati. In questi momenti di lentezza, la vista scorre sui monti, sulle stazioni abbandonate e sui campi punteggiati da trattori. Ed ecco che tra i rovi appare “Romagnano”. Una stazione senza fermate, un nome che richiama Roma, ma in mezzo alla campagna. Perché qui, lontano da tutto, si vuole ricordare Roma? Il mio smartphone non ha abbastanza campo per darmi una risposta immediata. Più tardi, scopro che Romagnano è un nome ricorrente in Italia, un eco dell’antica colonizzazione romana, ancora presente nei toponimi di tanti luoghi del Sud.

Eterni lavori

Se Roma è impacchettata tra i cantieri della metro a Piazza Venezia e quelli sparsi per il Giubileo, il sud non vuole essere da meno. A Potenza, vedo gru che si stagliano contro il cielo e macchinari all’avanguardia, segni di un progresso che sembra imminente, eppure il cantiere continua, forse da sempre. Questo scenario mi ricorda quanto l’Italia sia il paese dei cantieri infiniti: dalle licenze dei taxi che mancano a Roma, agli scioperi improvvisi, fino alle autostrade completate con grande lentezza, come la Salerno-Reggio Calabria. Nel sud, la lentezza diventa quasi un tratto caratteristico del paesaggio. E poi non capisco perché a Eboli il marciapiede continua ad essere insufficiente per coprire tutta la lunghezza del treno costrungendo i passeggeri a cambiare carrozza per scendere?

Il vuoto

Finché si tratta di estrema lentezza, potremmo anche accettarla, anche se logorante. Ma qui siamo oltre. C’è un momento nel viaggio in cui il paesaggio sembra fermarsi. Le stazioni si fanno sempre più rare, i campi sempre più vasti. Il treno rallenta, quasi si ferma, e io guardo fuori: non c’è nessuno. Ferrandina è così, una stazione deserta in mezzo al nulla. È un luogo sospeso nel tempo, dove il silenzio e l’assenza dominano. Mi chiedo quante persone abbiano visto questa stazione e si siano chieste a cosa serva ancora.

Taranto ci prova

A dire il vero la vista sui vasti spazi argillosi non mi dispiace e man mano degrada nelle dune, nei pini, nel mare. Che però a un certo punto inizia a popolarsi di gru, di grandi navi, di depositi di pale eoliche, di tubazioni, di nastri trasportatori sospesi. Ora non guardo più. Tiro giù le valigie. Scendo. E quando guardo di nuovo fuori mi ritrovo il viale della stazione con le sue palme, una fermata, gente che aspetta e autobus che arrivano. Sono qui per cambiare treno ma grande è la voglia di vedere oltre quel viale, come la città sta provando a cambiare. Per ora la notizia del giorno in città è un’auto che correva e che si è ribaltata sul Ponte Girevole.

Che faremo

Forse non tutti riusciranno a rompere la fila, forse Taranto cambierà solo un po’. Ma ciò che resta, al termine del viaggio, è l’immagine di un treno che si ferma, di persone che scendono, e di una città che ci prova, proprio come ognuno di noi. Ogni tappa, ogni stazione, è stata una pausa, un momento per guardare fuori e dentro, per chiedersi se, in fondo, siamo pronti a uscire dagli schemi. Il treno è arrivato al capolinea, e ora resta solo una domanda: cosa farò io, cosa farai tu, ora che siamo scesi? Tu hai mai preso questo o un treno simile? Che ricordi hai?

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