Totò, Leopardi e la rinascita dei piccoli paesi

Un viaggiatore solitario osserva un villaggio montano abbandonato, simboleggiando il contrasto tra la vita rurale in declino e la modernità che attrae verso la città. L’illustrazione cattura la bellezza malinconica di una cultura in abbandono, mentre il tramonto crea un’atmosfera di speranza per la rinascita. Credit immagine: Creata su richiesta specifica tramite DALL·E, 2024.

I borghi abbandonati in cima ai monti italiani raccontano la storia di un Paese che ha scelto la città al posto delle radici. Ma dietro ogni paese deserto, c’è una memoria che resiste. Essi hanno un grande ruolo nella storia dello spettacolo e della cultura in Italia e in questo articolo spiegherò in cosa consiste, come si è sviluppato nei secoli e come una simila questione ci riguarda oggi più che mai.

Lo spopolamento

Fernand Braudel nel suo libro sul Mediterraneo riflette sul fatto che con il cessare dei pericoli nelle zone costiere e con lo sviluppo delle città in pianura i piccoli centri abbarbicati sulle montagne, dove la gente del Medioevo si era rifugiata, iniziarono ad essere spopolati. Iniziò così una migrazione, a volte stagionale, da essi verso le città più in basso. Avvenne così che i contadini bergamaschi divennero servitori a Venezia.

La Commedia dell’Arte

Su questa figura del servitore è incentrato il progenitore di tutte le maschere della Commedia dell’Arte che nacque tra il 500 e il 600: lo Zanni. Da esso presero poi vita altre figure di sevitori come Arlecchino e la sua versione femminile Colombina. Zuan, versione veneta del nome Gianni, è un servo sciocco, trucido, legato alla terra guidato solo da due istinti: la fame e il sesso. Per i suoi modi di fare assomiglia agli animali. Anche Ruzzante era un contadino e stava con gli animali. I modi, i linguaggi, i comportamenti di questi personaggi legati al teatro del Cinquecento erano popolari, volgari, in grande contrasto con le figure raffinate, invece degli innamorati. E per questo venivano dileggiati, presi in giro come fino a poco tempo fa facevano i cittadini con i montanari, dei quali si sottolineavano i modi rozzi.

Leopardi

Anche Giacomo Leopardi, che visse gran parte della sua vita a Recanati fino al 1830, descrisse il suo rapporto con il borgo e il desiderio di fuggire dalla sua provincia, percepita come una prigione. Nelle sue lettere da Roma, Leopardi esprimeva tutta la disillusione per una città come Roma che, lontana dalle aspettative di grandezza culturale, si rivelava un luogo vuoto e superficiale. Allo stesso modo, nello Zibaldone e nelle Operette Morali, emerge il tema della fuga e della ricerca di stimoli altrove, che però portano solo nuove forme di alienazione. Questa migrazione interiore di Leopardi, tra la nostalgia delle radici e la disillusione delle città, rispecchia alla perfezione il fenomeno migratorio che ha coinvolto le popolazioni italiane nei secoli, lasciando i piccoli centri montani abbandonati per cercare fortuna nelle città.

Il dolore della separazione

Questo tema della fuga e dell’abbandono delle radici è visibile anche nell’arte, come nel celebre dipinto Fuga dall’Etna, del 1940, di Renato Guttuso. In questa rappresentazione vibrante e drammatica, vediamo figure in movimento, spinte dalla necessità di lasciare la propria terra. Le pennellate rapide e i colori intensi ci raccontano lo stesso destino che, nei secoli, ha costretto intere popolazioni a migrare dai piccoli borghi verso le città, portando con sé il dolore della separazione dalla propria terra e dalla propria identità. Il dipinto di Guttuso diventa così un potente simbolo del dramma dello spopolamento, offrendo una riflessione visiva su ciò che accade quando le radici vengono spezzate.

La noia e l’abbandono

Tale migrazione è continuata nel tempo fino a determinare lo spopolamento dei centri abbarbicati in alto. Non senza una vena di malinconia, di nostalgia e di inquitudine per quel che avverrà come si canta nella canzone Che sarà di Jimmy Fontana, interpretata dai Ricchi e Poveri al Festival di Sanremo nel 1971 e scritta dall’autore Franco Migliacci pensando al paese della moglie: Bernalda, in Basilicata. Essa descrive in modo letterale la noia, l’abbandono di questo tipo di centri, in un’Italia che anche grazie alle bonifiche risolve l’annoso ostacolo della malaria e che quindi puoi costruire le sue autostade, i suoi grandi centri urbani, le ferrovie, i centri commerciali. Offrendo tra l’altro in questo modo al mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento il tema del campagnolo che si trasferisce in città giacché non solo si spopolano gli abitati montani ma anche le campagne.

La satira

A parire dal periodo del boom economico degli anni ’50 tutti vogliono lasciare la campagna per la cittò come nel film Il ragazzo di campagna del 1984 diretto da Castellano e Pipolo con Renato Pozzetto. Esso finisce con il rappresentare una sorta di satira a quella che era diventata la cosiddetta Milano da bere. Cominciavano ad essere evidenti le contraddizioni dai grandi agglimerati urbani, come il traffico e la frenesia, rese con l’ironia del contrasto fra il testo e le gestualità nella canzone Com’è bella la città di Giorgio Gaber.

La questione ambientale

Alla satira si accompagnano anche le bordate ecologiste e antimoderne di tanta cultura italiana. Si pensi, ad esempio, al rammarico, per le trasformazioni che la civiltà contadina subisce, espresso da Pier Paolo Pasolini. Con lui inizia anche una questione ambientale che su altri palcoscenici è stata a lungo cavalcata da Adriano Celentano, da Il ragazzo della via Gluck a La pubblica ottusità, passando per Serafino, il film di Pietro Germi del 1968,  e Yuppi Du.

Totò, Peppino e la Malafemmina

La migrazione dal piccolo centro alla città produce delle maschere quindi come quelle della Commedia dell’arte e personaggi per lo più comici come quello interpretato da Pozzetto. A questi due mondi a buon diritto può iscrivere la sua appartenenza Totò che insieme a Peppino nel film Totò, Peppino e la Malafemmina (pellicola del 1956, diretta da Camillo Mastrocinque) esprime tutto lo smarrimento che un cafone prova nella metropoli, la sua inadeguatezza, il suo essere spaesato. L’arrivo a Milano vestiti da cosacchi e il colloquio col vigile di questa storica coppia comica, diventate vere e proprie scene cult, testimoniano una serie di luoghi comuni che fanno parte del bagaglio culturale di un’Italia che per larghi tratti teme che Milano sia la città del nord tormantata dal freddo e dalla nebbia. Mette in luce anche le forti differenze linguistiche dell’epoca giacché i vari dialetti sono l’unico modo di esprimersi ancora, soprattutto per chi abita nei centri più isolati.

Lo spaesamento

Questo contrasto tra campagna e città, che ha prodotto figure comiche come lo Zanni nella Commedia dell’Arte, trova eco anche nella cultura moderna. Ne è un esempio Roberto Benigni, che nel 1976 interpretava Cioni Mario di Gaspare fu Giulia nel programma Onda libera. Cioni Mario, contadino toscano dai modi buffi, incarna il campagnolo ingenuo alle prese con la modernità urbana, giocando sullo spaesamento culturale e sociale.

L’ottava rima

Questo richiamo al mondo rurale non è diverso da quello portato avanti dai poeti improvvisatori dell’ottava rima in Toscana, nel Lazio, in Sardegna, che ancora oggi praticano l’improvvisazione a braccio. Questi poeti, proprio come Benigni, utilizzano il linguaggio popolare e l’ironia, mantenendo viva una tradizione orale che riflette il legame con la terra e la capacità di adattarsi ai cambiamenti della società. Così come lo Zanni e i servitori della Commedia dell’Arte si sono evoluti in personaggi moderni, anche l’improvvisazione poetica continua a raccontare, in tempo reale, il contrasto tra le radici rurali e un mondo che cambia in modo molto rapido.

La rinascita dei piccoli borghi

Questo racconto prosegue anche sul grande schermo ai giorni nostri con film come Il bene mio di Pippo Mezzapesa con Sergio Rubini (2018). Elia, l’ultimo abitante di un paese distrutto, si rifiuta di lasciarsi alle spalle le macerie del suo borgo, opponendosi alla modernità che spinge verso l’oblio. Il suo attaccamento alle radici è il riflesso di una battaglia più grande, quella dei piccoli borghi italiani che, nonostante lo spopolamento, continuano a rappresentare la memoria collettiva e l’identità di un’Italia che cambia.

Il senso di comunità e appartenenza

Il legame tra passato e presente, tra città e campagna, non è solo una questione storica o geografica, ma anche culturale e identitaria. Come ci ricorda Franco Arminio, poeta e paesologo, «I paesi muoiono, ma non per la mancanza di persone, muoiono quando si perde il senso di comunità e di appartenenza». Questa riflessione ci invita a considerare lo spopolamento non solo come un problema demografico, ma come la perdita di un patrimonio culturale e umano.

I custodi della memoria

E tu, lettore, quale sarà la tua scelta? Sei legato alle tue radici, o hai già ceduto alla frenesia delle grandi città? Raccontami la tua storia nei commenti e condividi con me il tuo rapporto con i borghi italiani. Come Arminio, possiamo riscoprire insieme il valore della comunità e del territorio, e contribuire alla rinascita di questi luoghi, perché, come Elia, anche noi possiamo essere i custodi della memoria e della resistenza culturale.

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